Professor Rosina, secondo i dati Istat l’Italia è calata di più di 1 milione di abitanti negli ultimi 6 anni. Potrebbe essere l’inizio quel trend di cui ha parlato la rivista The Lancet per cui la popolazione italiana sarebbe destinata a dimezzarsi entro la fine del secolo?
“È indubbio che nel nostro Paese la tendenza è quella di un continuo calo della popolazione. Ormai il divario tra nascite e decessi si è talmente allargato che, anche considerando di intraprendere un improbabile percorso di aumento della fecondità fino alla media di due figli per donna, la struttura demografica si è così compromessa che nei prossimi decenni questa tendenza negativa non potrà che accentuarsi. I flussi migratori hanno consentito per un po’ di tempo di mantenere l’equilibrio, ma la denatalità degli scorsi anni sta erodendo le classi centrali odierne e dunque, con meno potenziali madri, anche aumentando la fecondità, in futuro ci saranno meno nascite. È un fenomeno che riguarda tutto il Paese, anche se ancora di più il Nord, dal momento che ha iniziato prima la tendenza di riduzione della natalità.”
All’interno del quadro nazionale, nel Nord si ha un’articolazione che vede, negli ultimi cinque anni, Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia perdere popolazione, la Lombardia invece cresce ma solo grazie a Milano, e infine l’Emilia-Romagna che vede aumentare la sua popolazione grazie al contributo di diverse provincie. Che lettura si può dare di queste diverse sfaccettature che assume il dato della popolazione nel Nord Italia?
“Partiamo da un dato. Anche le grandi città economicamente più dinamiche vedono un andamento demografico determinato da diverse tendenze. In particolare: i livelli di fecondità – ovvero il numero medio di figli per donna – in queste aree non sono migliori rispetto alla media nazionale: dunque non è la fecondità di per sé che consente di distinguerle dal trend nazionale. Quel che fa la differenza è la combinazione di attrattività occupazionale, sistema formativo e qualità della vita. Questo fa sì che trovando un contesto favorevole, le persone decidano di rimanere. Spesso il formare una famiglia non è nemmeno la loro priorità, ma se trovano un contesto favorevole in cui si riesca a coniugare la propria vita lavorativa e quella familiare, allora risulta facile sviluppare un senso di appartenenza più solido e contribuire al trend demografico positivo. Alcuni di questi fattori hanno consentito la crescita di grandi città come Milano o Bologna. Nel decennio scorso, per queste due città, è stata la capacità di attrarre la popolazione giovane, quella che ha determinato la crescita di popolazione.”
Perché parla per Milano e Bologna solo di alcuni di questi fattori?
Provo a spiegarmi meglio. E prendo ad esempio il caso di Berlino, una città che ha molto investito sulla qualità e sull’accesso ai servizi e che di conseguenza non solo ha attratto a sé molti giovani da tutto il mondo ma li ha resi parte integrante di un solido processo di crescita. Il motivo del suo trend demografico positivo sta nel fatto che la città tedesca ha tenuto un’attenzione particolare al superamento delle complessità organizzative della vita familiare, diventando una città che cresce non solo per fattori esogeni – i giovani che arrivano dall’estero – ma che favorisce anche i meccanismi della crescita endogena. Tutto ciò non si è osservato a Milano e fa fatica a succedere anche a Bologna: in Italia la fecondità fatica a crescere, e anche le grandi città più dinamiche, da questo punto di vista, non si distaccano di molto dalla media nazionale.”
Entrando nei dettagli delle singole provincie constatiamo che Parma e Modena crescono, mentre Treviso e Vicenza calano. Cosa si può dedurre dalla differenza tra le province venete e quelle emiliane?
Questo è un dato molto interessante, e credo che l’elemento chiave per comprendere queste differenze sia il sistema territoriale delle province: in Veneto si nota la mancanza di un centro riconosciuto, connesso con i poli internazionali e aperto verso il futuro. In Emilia-Romagna, invece, si può facilmente riconoscere la città di Bologna come centro focale del modello regionale, con maggiore omogeneità e visione comune anche della guida politica tra città e regione a differenza di Milano e Lombardia. Un dato da tenere in considerazione, poi, è quello degli investimenti totali su ricerca e innovazione: l’Emilia-Romagna si posiziona ai vertici in Italia, molto sopra sia di Veneto sia di Lombardia. È senza dubbio verosimile che un’evoluzione in senso positivo della narrazione generale rispetto al sistema regionale emiliano possa essere la ragione per cui Bologna sia la meta di chi si vuole allontanare da contesti in cui dinamismo e opportunità mancano.”
Già negli anni scorsi c’è stato un fenomeno massiccio di emigrazione giovanile all’estero. Su questo fronte Lei pensa che la crisi economica generata dalla pandemia possa provocare nuovi flussi consistenti verso l’estero? Oppure, considerando che le economie sono state colpite ovunque, questo non accadrà in maniera sistemica?
“La mia convinzione è che all’inizio varranno entrambe le tendenze che lei ha delineato, mentre poi una delle due opzioni si imporrà sull’altra. Questo dipenderà dalla capacità che avrà l’Italia di imboccare o meno la soluzione giusta. Ci troviamo ad un bivio: o l’Italia intraprende una strada in cui, grazie alle risorse arrivate dall’Europa, riuscirà a superare le fragilità che si trascina dal passato, oppure la combinazione tra gli squilibri demografici, il peso del debito pubblico e l’altissima percentuale di “neet” – ovvero i giovani che non studiano né lavorano – trascinerà irrimediabilmente il Paese verso il basso.”
Sempre rimanendo agli effetti della pandemia nel dibattito di questi mesi si delineano due possibilità: o tutto tornerà identico a prima, oppure Milano si svuoterà e si andranno a popolare i borghi e le città medie di provincia. Quale di questa ipotesi le sembra più verosimile?
“Escludo che si torni come prima: le condizioni che hanno consentito a Milano di crescere negli anni ’10 non ci saranno più, dunque la città lombarda non può pensare di tornare come era prima. Le grandi città, soprattutto in una situazione di forti squilibri demografici come quella in cui ci troviamo ora, hanno estremo bisogno di attrarre giovani: se non riescono a farlo, invecchieranno sempre di più diventando nel contempo anche economicamente e socialmente sempre meno sostenibili. Quindi Milano ha due vie davanti a sé: o diventa veramente un sistema interconnesso con le realtà che gli stanno attorno, oppure andrà incontro ad un indebolimento continuo.”
La Milano di domani potrebbe diventare molto simile alla Torino di oggi?
“È una delle opzioni possibili. Ma teniamo presente che la sfida è ineludibile: le università e le aziende milanesi si stanno attrezzando per dare la possibilità di studiare a distanza, e ciò avrà senz’altro ricadute rilevanti sulla città stessa. È necessaria una capacità di ripensarsi attraverso modalità nuove: le università, le aziende e la politica di Milano devono unirsi per riuscire a trovare una nuova configurazione sostenibile a vantaggio di tutto il sistema, altrimenti Milano rischia un enorme contraccolpo negativo. In questo momento la città lombarda si giova molto del suo ruolo futuro.”
Ma perché, a suo parere, nell’agenda del Paese non si riesce ad inserire concretamente il tema “giovani”?
“L’Italia ha passato una fase di vero e proprio miracolo economico, dove la crescita è stata particolarmente esuberante e della quale le nuove generazioni dell’epoca hanno potuto cogliere i frutti. Nel momento in cui il Paese è passato dalla condizione di larga deprivazione economica tipica degli anni ’30 ad avere un largo ceto medio benestante, ci siamo persi: l’Italia all’inizio degli anni ’80 era tra le 7 grandi economie mondiali, ma è prevalso più il timore di perdere il benessere raggiunto che il coraggio di investire in una nuova fase di sviluppo. Il paese si è così arroccato in difesa. Tutto ciò ha frenato la crescita delle componenti nuove: le nuove generazioni si sono trovate con meno strumenti di politiche attive e a dipendere maggiormente dal benessere privato dei genitori, mentre le donne non hanno trovato risposta soddisfacente alla domanda di un nuovo welfare che permettesse loro di combinare scelte di lavoro e scelte di vita, la difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia ha frenato sia l’occupazione femminile che la natalità. L’Italia non è riuscita ad adattare il suo modello sociale e di sviluppo ai tempi nuovi, trovandosi così sempre più a difendere i propri livelli di benessere scaricando i costi sul futuro, attraverso debito pubblico e squilibri demografici, anziché produrre nuova ricchezza con le nuove generazioni e la forza lavoro femminile.”
Quindi se l’Italia vuole tornare a crescere in termini demografici?
“Ci sono due elementi su cui si deve ragionare. Da un lato bisogna guardare all’effettiva possibilità che la pandemia costituisca una discontinuità, ovvero un momento di shock che mette il Paese davanti alla necessità di cambiare radicalmente. Dall’altro dobbiamo considerare che l’alibi della mancanza di risorse ora è venuto meno. Le risorse, quelle che arrivano dall’Europa con l’iniziativa Next Generation Eu, ora certamente non mancano: adesso è arrivato il momento di decidere come vogliamo trovarci tra una decina di anni. Rimettiamo tutto in discussione e facciamo finalmente diventare le nuove generazioni quei soggetti che producono nuovo benessere con strumenti all’altezza delle loro potenzialità, facciamo diventare i giovani i soggetti attivi del salto di qualità di cui il Paese ad ogni livello. Più che di modelli da imitare abbiamo bisogno di avviare processi e di progettualità: non dobbiamo copiare e recuperare ciò che hanno fatto altri Paesi 10 anni fa, ma abbiamo bisogno di reinterpretare le esigenze e le peculiarità del nostro territorio in coerenza con i grandi cambiamenti di questo secolo.”