Il meccanismo di frode si avvaleva di numerose società commerciali (66 quelle coinvolte di cui 18 fallite) intestate a “prestanome”, ma di fatto gestite da un’associazione criminale con sede nel capoluogo lombardo. I bilanci venivano falsificati al fine di ottenere, da parte di vari istituti bancari, l’apertura di linee di credito per la maggior parte garantite dallo Stato. Le somme venivano poi riciclate attraverso l'acquisto di ricariche telefoniche vendute "in nero" a terzi. Oppure trasferite su conti correnti esteri intestati a soggetti economici di diritto cinese e successivamente restituiti in contanti. Più di cento gli indagati
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