“Quando non sai cos’è, allora è jazz!” è una delle frasi più famose che Dany Boodman T.D Lemon Novecento dice nel romanzo di Baricco.
E come dovrebbe essere l’organizzazione ideale per il nostro tempo VUCA? Difficile dirlo, ma se funziona, di sicuro sarà jazz.
L’acronimo VUCA è entrato da tempo nel glossario di chi si occupa di modelli organizzativi e identifica contesti in cui si manifestano Volatility, Uncertainty, Complexity and Ambiguity.
Di fronte ad un ambiente imprevedibile come questo occorre improvvisare.
Nel sentire comune il termine “improvvisazione” assume sempre connotazioni negative correlate a situazioni in cui prevalgono l’incompetenza, l’inefficienza, l’inadeguatezza, il costante ritardo.
Nella musica Jazz l’improvvisazione diventa, invece, la massima espressione artistica: il capolavoro. Addirittura, come nelle performance di Keith Jarret, si è coniato il termine di composizione estemporanea, cioè di nascita del brano nel momento stesso in cui lo si suona, per la prima e unica volta in quello specifico momento, davanti a quel pubblico.
Ma quali sono le condizioni che permettono ad un gruppo di jazzisti di improvvisare generando capolavori? E le stesse condizioni possono aiutarci a creare un’organizzazione che improvvisa generando eccellenza?
Dal confronto con amici jazzisti con la passione per l’organizzazione (pochi) e amici consulenti con la passione per il jazz (qualcuno di più), sono emersi questi quattro temi.
1. La competenza. L’improvvisazione non si improvvisa. Un musicista che improvvisa deve essere molto, molto ma molto bravo. Cioè, prima di improvvisare, deve avere assimilato la tecnica classica e deve poterne affrontare il repertorio (ascoltate le Variazioni Goldberg di Jarret o la tromba barocca di Marsalis). Allo stesso modo le risorse che compongono un’organizzazione che improvvisa devono possedere competenze tecnicamente eccellenti e continuare a studiare. Questo crea sicurezza nell’azione di ognuno e fiducia reciproca.
2. La visione condivisa. L’improvvisazione jazz si basa su uno standard (un brano famoso o un giro armonico concordato) ed un modello di interazione cioè un modello che regola gli interventi di ogni strumento. Sono pochi elementi essenziali, chiari, condivisi che guidano l’azione. Per l’organizzazione questi si trasformano in una visione chiara, valori condivisi, obiettivi definiti. E, così come nel jazz, non esistono le partiture delle composizioni classiche che definiscono tutto (o quasi), allo stesso modo nell’organizzazione jazz le procedure diventano inutili perché si “sublimano” nella visione condivisa.
3. La coesione del gruppo e la valorizzazione del singolo. In ogni brano jazz c’è il momento corale e il momento degli assoli. Ognuno ha il proprio spazio espressivo ma deve contribuire al risultato d’insieme. Ci può essere la star ma lo spazio c’è per tutti. Nell’organizzazione questo significa capire quando è il mio momento ma anche quando è il momento di lasciare spazio a chi meglio di me può agire in un determinato contesto e creare le condizioni perché questa persona possa eccellere.
4. L’osmosi con il pubblico. Nella performance jazz il pubblico non è spettatore ma parte attiva. L’improvvisazione deve portare il pubblico dentro il brano e farlo pulsare al ritmo della musica. Se questo non succede, la band deve cambiare l’approccio con nuove improvvisazioni. Allo stesso modo l’organizzazione che improvvisa deve costantemente “sentire” il cliente ed il mercato. Se perde questo legame, è finita.
Solo con questi quattro elementi l’improvvisazione creativa è possibile e un’organizzazione può veleggiare in mari VUCA.
È chiaro che saremo sempre affascinati dalla complessità formale e dalla bellezza compiuta dei contrappunti di Bach o della polifonia di Palestrina, ma, ai loro tempi, la riforma luterana e le committenze papali, offrivano un contesto molto più stabile.
Forse anche per l’organizzazione torneranno i tempi degli organigrammi a piramide azteca: chi lo sa? Noi, anche in quel caso, cambieremo stile d’improvvisazione!
*Nicola Luca Gianesin – CEO GC&P