Avvocato Massimo Malvestio, lei anni fa ha scritto un libro dedicato al Credito cooperativo. Un racconto che, letto oggi, quando imperversano aggregazioni e gruppi bancari, sembra di quasi un secolo fa. Cosa è successo in questi anni?
Sono passati quindici anni. Di mezzo c’è stata la crisi della Lehman che ha svelato la fragilità del sistema finanziario mondiale. Uno shock, secondo me, non ancora del tutto compreso e che comunque non ha ancora finito di produrre conseguenze. Soprattutto è esplosa la produzione di regole, di controlli e di controllori. Le banche sono passate dalle mani dei banchieri a quelle dei compliance officer e dei risk manager.
Le aggregazioni procedono a ritmo serrato, unendo banche di provincie e territori diversi. Cosa rimane dell’idea di banca territoriale e di mutualità che erano all’origine delle Bcc?
Molto poco di entrambe. Nelle vecchie casse rurali i 4/5 dei soci dovevano essere artigiani o agricoltori. Poi quel limite fu abolito, ma rimase forte il radicamento territoriale dei soci che dovevano risiedere nei Comuni di operatività della banca, la quale a propria volta aveva ben precisi limiti territoriali. La regola era che le casse rurali potessero lavorare solo dove avevano gli sportelli e le casse che avevano sportelli in più di qualche Comune erano una rarità. Anche con la liberalizzazione si arrivò ad avere le maggiori Bcc che potevano operare in qualche decina di Comuni, ma mai di più. A eccezione della Bcc di Roma che era un unicum. Comunque anche le maggiori Bcc si identificavano con un’area territoriale delimitata e precisa, per lo più comprensoriale come scrivevo nel libro. Allora avevano sostituito le piccole popolari di comprensorio che erano state quasi tutte assorbite. Quello che non c’ è più è il collegamento tra banca e territori: la Bcc di Roma è arrivata a Padova! Le aggregazioni avvengono in modo casuale dal punto di vista territoriale, scavalcano province e regioni; i soci sono in molte banche molte decine di migliaia e quindi non conoscono più gli amministratori che, di fatto, vengono a controllare le assemblee che devono eleggerli. Quindi ormai l’unica vera caratteristica che è rimasta è la non contendibilità e la grande difficoltà di accedere al capitale di rischio, in questo si traduce oggi la forma cooperativa. La mutualità poi non è più compatibile con regole di vigilanza così dettagliate e diffuse che di fatto impongono un unico modello di banca, o almeno, un modello naturalmente lucrativo e non mutualistico.
Da una unica federazione, negli anni scorsi, dopo una lotta piuttosto combattuta, sono nati due gruppi bancari, Iccrea e Ccb. Come giudica questo approdo?
Iccrea e Cassa Centrale sono due società per azioni, ma mi pare che combinino gli svantaggi di una governance pletorica e sostanzialmente irresponsabile delle cooperative con l’incapacità di attingere al mercato dei capitali di rischio che caratterizzava invece le spa rispetto alle cooperative mutualistiche. Si poteva risanare il sistema favorendo l’affermazione delle Bcc più efficienti (e gli esempi erano molti). Si è preferito omologare le diversità a danno dei migliori ovviamente e vantaggio di quelli che versavano in condizioni più difficili.
Una contraddizione insita nella costituzione di questi due gruppi è che si sono trasformati in spa, ma non hanno raccolto capitali fuori dal movimento. Ne hanno piuttosto drenati fuori, come stava accadendo con l’operazione Carige che è stata poi bloccata.
Infatti, l’operazione Carige è stata abortita, ma il significato strategico è stato enorme: Cassa Centrale vuole entrare nel retail e competere con i propri soci e lo fa utilizzando una società per azioni. E per farlo drena risorse al di fuori del sistema delle banche mutualistiche. Il risultato economico è coerente con la qualità del disegno strategico.
Lei ci ha parlato delle difficoltà di fare banca in questi anni, ma anche dentro il movimento delle Bcc ci sono situazioni diversificate. Alcune soffrono e hanno problemi, altre invece sembrano saper garantire una efficiente gestione.
Francamente mi pare che prima della riforma vi fossero qualità di gestione molto diverse. Anzi credo che proprio nelle Bcc ci fosse la prova che buone gestioni erano quel che serviva assai più di dimensione, italianità e altre parole d’ordine che andavano in voga al tempo. Nonostante gli sforzi di omologazione e di annientamento delle singole realtà, ci sono ancora Bcc che svettano e ci saranno sempre fino a quando il processo di omologazione le avrà omogeneizzate in un’unica entità.
Ma se le Bcc sono diventate nei fatti banche come le altre, chi potrà svolgere in futuro quella funzione di mutualità o addirittura di beneficienza che era alla base della costituzione del movimento cooperativo che ha dato vita alle Bcc? Abbiamo scritto recentemente di alcune iniziative di microcredito sviluppate da alcune diocesi, spesso con il sostegno di grandi istituti di credito. Ci raccontano di casi di esclusione dal mondo del credito addirittura di giovani lavoratori solo perché non hanno contratti a tempo indeterminato o di partite Iva, anche se possono contare su redditi più che dignitosi.
Questa è un’osservazione molto importante. Cavour nel 1849 parlando al consiglio comunale di Torino della locale Cassa di risparmio disse: “Ricordatevi che questa, prima che una banca, è un’istituzione di beneficenza”. In Italia abbiamo il reddito di cittadinanza. Vi sono però categorie di persone sempre più ai margini, oggettivamente pericolose dal punto di vista bancario e che però vorrebbero provare a restituire quel che ricevono perché hanno una dignità, perché vogliono provare nel loro piccolissimo a essere imprenditori, perché appartengono a comunità dove il lavoro è un valore. Ebbene, si spende per il reddito di cittadinanza ma si fa quasi nulla per dare a questa gente la possibilità di accedere al credito. Il problema che l’impresa lucrativa non è l’unico modo in cui il credito può essere fatto e il profitto non è L’ unico motivo per dare credito. L’ iniziativa della diocesi di Treviso, che fra l’altro prevede un percorso di tutoraggio, spero che abbia un grande successo e che possa essere la prima tra molte. Sarebbe bello potesse basarsi solo su offerte private, ma – se il reddito di cittadinanza merita il sostegno dello Stato -queste iniziative ne meritano ben di più. Le casse peote sono proibite, le vecchie casse rurali che prestavano alle persone non esistono più. Penso sia assolutamente necessario colmare il vuoto che si è venuto a creare, sempre più grande, in questi dieci anni di ultra regolamentazione.
Insomma, avvocato Malvestio, hanno ancora senso le Bcc? E quali potrebbero essere i modelli alternativi?
Oramai le Bcc sono solo strutture di potere nella attuale forma giuridica. Soprattutto non hanno accesso al mercato del capitale di rischio senza che ne sia chiara la ragione. Questo è anche un problema di stabilità del sistema. Banche che hanno la fiducia dei mercati dei capitali sono la miglior garanzia per il sistema. Le Bcc potrebbero essere utilmente trasformate in società per azioni, come è avvenuto per le popolari, non perché sia bello ma perché questo è il modello di banca che è coerente con il modello che designano le regole di vigilanza europea. Magari spa con limite al possesso azionario e con connotazione territoriale ma il voto capitario non ha più senso. Per mutualità vera servono strutture assolutamente nuove che ripartano dalle origini.
Se mi permette, un’ultima domanda. Lei ha lascato l’Italia e si è trasferito a Malta a operare come importante investitore nel mondo della finanza internazionale in polemica con il suo Paese, i cui livelli di tassazione giudica sono insopportabili. Perché ha sempre coltivato tanto attenzione per il modello delle Bcc e del credito mutualistico?
Non credo di avere fatto polemica, non mi pare. Dopo avere fatto per trent’anni anni l’avvocato, volevo fare il gestore e forse combinare insieme le due esperienze dopo che, all’inizio della mia carriera, ero stato a un passo dal potere anche diventare agente di cambio. Mi pare che le società di gestione e i fondi siano in Irlanda, in Lussemburgo, a Londra, qualcuno anche a Malta (che ho preferito per il clima, soprattutto) e mi pare che in questi Paesi sia pieno di gestori italiani. Talvolta i più bravi gestori italiani. Un motivo ci sarà: tassazione, regolamentazione, rapporto con i regolatori? Non lo so per certo, probabilmente tutte e tre le cose insieme: i numeri sono spietati e sono di una chiarezza inequivocabile. Quanto alle Bcc, io ho sempre amato il Veneto, che è una terra policentrica, piena di identità e di storie di lavoro che, come raccontavo nel mio libro, si è affrancato dalla miseria anche grazie alle casse rurali banche di comunità e molte volte banche degli ultimi che riescono a diventare i primi. Ho avuto la fortuna di vivere da vicino tante belle storie, davvero entusiasmanti e così le ho raccontate. Ecco: se la Bcc Prealpi, della Marca, San Biagio, San Giorgio e diverse altre avessero potuto diventare spa, se avessero potuto raccogliere denari e crescere e mantenere integro il loro Dna, magari avrei continuato a scrivere di Bcc, storie di uomini e di imprese nei loro territori. Adesso non vedo cose altrettanto belle come le storie che ho raccontato. Adesso le storie le scrivono minuto per minuto i compliance officer e i risk manager. N0n mi pare serva altro, per ora.