L’evento Maps for future “Multicultural workplace, quando la diversità allena al cambiamento”, proposto lo scorso 27 febbraio, ha beneficiato di punti di vista molto diversi sul tema complesso dell’interculturalità nel mondo delle imprese e suggerisce qualche considerazione.
L’elemento principale di complessità sta nel fatto che la dimensione culturale si snoda in almeno tre diversi livelli che sono di fatto strettamente interdipendenti. Esistono infatti le diverse le culture dei Paesi in cui le imprese multilocalizzate operano,le culture delle comunità nazionali che possono essere presenti anche in una singola impresa italiana e infine le culture delle singole imprese o dei gruppi distribuiti geograficamente nel mondo.
Che cosa si intende per questo terzo livello? Tra le molte “mappe” che aiutano a leggere un’organizzazione, la cultura è particolarmente preziosa perché include quei fattori impliciti (e non facilmente riconoscibili) che influenzano in modo potente i processi decisionali. Ad esempio; quali sono i valori fondativi che ancora oggi sono alla base delle relazioni esistenti? Come si traducono in vissuti e pensieri diffusi? Quali sono le “teorie implicite” rispetto a ciò che è opportuno, giusto, vantaggioso, rischioso? Come viene gestito nella realtà l’errore e come influenza i processi di innovazione e di apprendimento?
Nella vita concreta delle organizzazioni, in particolare se inserite in quei processi di “internazionalizzazione profonda”, come la descriveva Claudio Demattè riferendosi al ricorso ad alleanze e acquisizioni, questi tre livelli interagiscono aumentando in modo esponenziale la complessità da gestire. E alimentando la necessità di sviluppare forme di fiducia a vari livelli come elemento di coordinamento e di capacità di cogliere opportunità strategiche.
Carlo Vanin, Chief HR & Organization officer di Carel Industries ci aiuta con lucidità a capire un primo elemento di fiducia: all’avvio dei processi di internazionalizzazione i collaboratori dell’azienda padovana si sono confrontati con la possibilità di fidarsi di un progetto di sviluppo all’estero attraverso una crescita per linee esterne, con gli effetti in termini di incremento di complessità dei processi e di connesso adeguamento di competenze. Si tratta di una fiducia che implicitamente dovrebbe colmare il vissuto di chi si sente s-paesato quando esce dal golfo delle acque più calme di un’operatività nazionale, soprattutto se viene da un’esperienza professionale giocata tutta in Italia (viceversa per inciso, tra gli elementi di attraction per le generazioni più giovani conta molto il respiro internazionaledell’azienda e l’inserimento in progetti che permettono di viverla anche nelle sue declinazioni globali). Questa fiducia può essere rafforzata dalla reputazione imprenditoriale e manageriale: “il capitano della nave e gli ufficiali conoscono la rotta verso un futuro migliore”.
Una fiducia speculare riguarda i collaboratori delle aziende estere che sono state acquisite: in questo caso si combinano i vissuti connessi alla dimensione interculturale in senso stretto (come vivono le persone di questa azienda tedesca che è entrata nella nostra orbita le relazioni con il nuovo management e i collaboratori italiani?) con la sintonia tra “culture organizzative” che rendono peculiare e diversa ogni “comunità aziendale”.Molte storie industriali, anche venete, mostrano infatti quanto possa essere difficile acquisire persino aziende che sorgono a distanza di due capannoni l’una dall’altra. Lo stesso manager indica qui alcuni punti di attenzione per l’integrazione: essere credibili, saper attivare leve locali dal punto di vista della comunicazione (con attenzione alla scelta della lingua negli scambi con la casa madre). La premessa che indica Vanin è la capacità di leggere il contesto (aziendale e nazionale) in cui si opera e tenersi lontani, dal punto di vista valoriale, da una prospettiva “colonizzatrice”.
Da quest’ultima variabile possono nascere considerazioni aggiuntive al di là del caso Carel: come in molte situazioni complesse, forse anche qui c’è da affrontare, senza annullarlo, un trade-off significativo. In una sintesi tranchant: se è vero che una cultura organizzativa si può “affermare” (ad esempio con processi decisionali, stili di leadership, premi e sanzioni) e che il “da noi si fa così” rappresenta una leva importante di integrazione e di fluidificazione dei processi a livello di gruppo, è vero anche che un’enfasi troppo “muscolare” su questa leva può andare in collisione con lo sforzo di integrazione interculturale, che può beneficiare invece di un maggior “ecumenismo” e di un’autentica valorizzazione delle diversità. Ogni storia aziendale è fatta di modalità specifiche nell’affrontare questo bilanciamento tra “piramide” culturale e “patchwork” interculturale, che non rappresenta un dilemma ma piuttosto un terreno accidentato da percorrere attraverso tentativi ed errori, desiderio autentico di com-prendere e mediante progetti e iniziative concreti. Con l’obiettivo di “modulare” in termini interculturali le policies, le prassi ed i comportamenti degli attori organizzativi che “tengono insieme” la galassia organizzativa, contemplando un “flusso culturale” in qualche misura bidirezionale tra “centro e periferia”.
Giorgio Gosetti, Docente di sociologia del lavoro all’Università di Verona, aiuta ad immaginare un’ulteriore forma di fiducia, da riporre nel contributo strategico degli “sguardi” e delle energie interculturali che abbiamo già “in casa”. In altri termini, la capacità di inserire nei processi “metabolici” la diversità culturale e di trasformarla in linfa per la “openness” dell’azienda. Ho visto ad esempio team inter-continentali in R&D sviluppare prodotti fortemente innovativi, collaboratori africani di imprese italiane aprire il mercato nei loro paesi di origine e raccolto da un HR l’effetto arricchente di un collaboratore indiano in un ufficio tecnico italiano che lo rende implicitamente un “allenatore” all’uso dell’inglese e una persona che attraverso le conversazioni informali e quotidiane tiene aperte delle brecce nel muro di quello che “diamo per scontato” nei nostri modi di sapere, sentire, vivere.
Tutto questo, ci ricorda Marco Zolli, Cross Cultural Management Expert e raffinato conoscitore della cultura indiana, senza cadere nella retorica della “melassa” che vede l’interculturalità come esperienza intrinsecamente positiva: ricordando la dimensione faticosa e “urticante” dell’incontro tra culture fa pensare che ci si debba fidare anche della propria “pancia”: quando si sente del disagio e della difficoltà significa che si è effettivamente esposti alla diversità, anche con la vulnerabilità di chi accetta di “decentrarsi da sè”.
*specialist Niuko sviluppo organizzativo e innovazione