Innovazione è un termine inflazionato che racchiude tutto. Troppo spesso banalità, ma anche killer application, rivoluzioni silenti che permeano il nostro quotidiano senza che alcuno espliciti il cambiamento che ne scaturisce, oppure rivoluzioni rumorose di cui non si può far altro che parlarne e che diventano oggetto di talk show, articoli su riviste di settore e non solo. Chiunque sembra titolato a discuterne.
Il Digitale
Accanto al sostantivo è però necessario affiancare la parolina magica che contestualizzi il dove ed il come si stia facendo innovazione.
Conscia di non essere originale, aggiungo il termine “digitale”.
E’ di innovazione digitale che mi sono occupata “prima”, quando i due termini erano poco usati e “dopo”, quando non se ne poteva più fare a meno fino a renderli “abusati”.
Prima e dopo. Il senso di questo percorso di evoluzione e rivoluzione era ed è “provare a rendere questo mondo un posto migliore”.
E’ il mio punto di vista di manager che si è occupato per l’intera carriera di soluzioni che “innovavano”, ovvero di prodotti che “inglobavano” l’innovazione prodotta da altri, ma è anche il mio punto di vista di temporary manager quando, da esterna all’organizzazione, ho ricevuto affidamenti temporanei di imprese o di parte di esse, con l’obiettivo di garantire si continuità, ma anche di accrescere le competenze manageriali esistenti, traghettando il cambiamento. E dietro la parola cambiamento c’è tutto il mondo delle risorse umane, delle tecnologie a servizio dell’organizzazione, delle soluzioni da proporre al mercato, dell’innovazione, appunto.
Ritengo che la ricombinazione di fattori diversi all’interno di un’organizzazione debba essere il focus di qualsiasi progetto di “innovazione” e della conseguente trasformazione digitale.
E’ lavorando su questo che si costruisce un vantaggio competitivo per se stessi, l’azienda nella quale si opera, o per l’esterno (i propri clienti).
La trasformazione digitale
Non a caso quando si parla, ad esempio, di AI generativa si pensa all’organizzazione, al futuro della produttività, alle conseguenze sul quotidiano a cui siamo abituati. Ecco perché, come ha affermato McKinsey in un recente articolo, “la trasformazione digitale è diventata un termine omnicomprensivo che significa cose diverse per persone diverse […] ed è fondamentale per le organizzazioni non solo per competere, ma anche per sopravvivere”.
Credo che il successo di questi progetti sia ormai imprescindibile e non possa che passare attraverso un programma specifico che allinei la propria organizzazione grazie a messaggi chiari su cosa si intende per “digital trasformation”. Eravamo abituati a rimodulazioni organizzative che avevano una fine coincidente con il raggiungimento di un obiettivo esplicito, posizionato in tempi più o meno brevi. Ci troviamo, oggi, di fronte ad un processo di “continous improvement”. Un processo di lungo termine che rischia di coincidere con la propria vita professionale. Gli obiettivi misurabili sono solo milestone intermedie. Indispensabili risultati di un piano strategico che contiene componenti note, ma anche “presunte”.
Per me, lavorare nel mondo dell’Information Technology vuol dire, quindi, aver avuto ed avere un punto di vista privilegiato. Si fa innovazione e si vende innovazione. La parola vendere non è mai vista come qualcosa di “nobile”, ma in questo caso non dobbiamo dimenticarci che quando si propongono ad un cliente uno o più progetti di digital trasformation, si sta offrendo una vasta gamma di cambiamenti tecnologici, organizzativi, culturali, sociali, manageriali anche creativi, il cui fine ultimo resta l’erogazione di nuovi servizi volti al miglioramento della vita degli utenti ed atti a mantenere l’azienda competitiva sul mercato.
L’Umanesimo
Quando si parla di competitività e di valore la mente non può non condurci alla storia degli ultimi anni, la difficile “storia” che ci ha obbligato a ripensare e riprogettare la socialità ed il quotidiano lavorativo. Siamo stati costretti a legare indissolubilmente il concetto di innovazione a quello di “umanesimo”. La inevitabile spinta tecnologica e l’altrettanto inevitabile attenzione alla componente umana ci hanno condotto a valutare la reazione del singolo e delle comunità, incluse quelle professionali, di fronte agli eventi inaspettati. Le azioni intraprese sono state la necessaria conseguenza.
Non è un caso che un attento giornalista e manager come Marco De Masi, nel suo libro “Perché la cultura umanistica fa bene all’impresa italiana”, abbia evidenziato come sempre di più si faccia uso di questo termine e di come sia associato alle aziende o, più precisamente, all’atteggiamento di queste ultime che, in modi diversi, si occupano di ascoltare le necessità degli stakeholder, dei portatori di interesse.
In passato l’attenzione alle conseguenze che le attività di un’organizzazione complessa come un’azienda potevano avere sulle persone era delegato alla sensibilità del singolo manager. Oggi sta diventando un “modello” a cui tendere.
Cambiare qualcosa in azienda per continuare a crescere, generando però un impatto positivo nei confronti dell’ambiente e dei propri collaboratori. Sono aumentate le aziende B Corp certificate o che hanno intrapreso il percorso di certificazione. Queste ultime sono state, ovviamente, attente ad innovare, ma ancora di più a porsi il problema di cosa sia utile all’uomo. Il bilancio sociale, la relazione annuale di impatto da allegare non possono essere semplicemente degli esercizi formali.
Food for thought
Prendiamo alla lettera il termine inglese “food for thought” e rendiamoci conto che senza la giusta attenzione all’individuo, agli aspetti culturali, nessuno riuscirebbe a sentirsi pienamente realizzato.
La conclusione ovvia è che la “dimensione umana” debba andare oltre gli aspetti personali e le scelte individuali e integrarsi appieno nella vita aziendale.
Innovazione, digitalizzazione ed umanesimo sono, quindi, concetti imprescindibili in qualsiasi percorso professionale e, ancor di più, manageriale. Siamo chiamati a ripensare al nostro percorso individuale al fine di trasformarci in guide attente ai processi di trasformazione dove tecnologia, psicologia, sociologia diventano componenti imprescindibili del successo di un ambiente lavorativo.
L’introduzione “temporanea” di esperti, per costruire team multidisciplinari è diventata una tendenza sempre più sentita, soprattutto nelle aziende di medie e piccole dimensioni.
*Ing. Enza Fumarola ha lunga carriera manageriale dove ha operato come CEO, General Manager, VP sales e Direttore Servizi in società informatiche internazionali e nazionali, tra le più recenti Infor ed Altea. Esperienza nella gestione e nel supporto strategico dell’azienda. Ha gestito, negli anni, diverse operazioni di M&A, preoccupandosi della conseguente attività di riorganizzazione aziendale. La passione per il “fare” ed il problem solving sono due elementi chiave del percorso professionale, così come l’attenzione alla gestione dei team e dei collaboratori.
Oggi è Team Partner di Manager a Tempo® nell’area CEO ed è specializzata nella Digital Trasformation e Innovation strategy.