Raccontano i ben informati che quando sono uscite le prime notizie sul Recovery Fund, a Trieste si siano fiondati al lavoro per cominciare a stendere i progetti da presentare al Governo per farli inserire nel piano complessivo che l’Italia dovrà presentare per ricevere i mitici 209 miliardi di quel Next Generation Ue che in Italia ci ostiniamo a chiamare Recovery Fund. Un lavoro apparentemente senza senso, perché si trattava solo di un annuncio e, in quel momento, non esistevano indicazioni che precisassero la tipologia di interventi finanziabili e tantomeno la modulistica. Ma, chi frequenta da tempo i corridoi di Bruxelles, conosce a menadito come si ragiona in quelle sedi e quindi quali sarebbero state le aspettative. Ragion per cui, a Trieste, si è scelto di mettersi subito al lavoro, mentre da altre parti si attendeva, sforzandosi al più di andare a tirare fuori vecchi progetti rimasti da anni nei cassetti, anche se puzzavano più di “Old” che di “Next” Generation.
Trieste dunque, già a fine agosto, aveva pronti progetti per l’intero sistema della logistica che gira intorno all’autorità portuale per 1,2 miliardi di contributo pubblici e per altrettanti di investimenti privati. Certo, non tutti i progetti erano legati al Recovery, ma i fucili erano carichi per poter sparare al momento giusto. Così, in occasione della visita del Premier Conte a Trieste, ai primi di settembre, i progetti gli sono stati presentati e, nelle settimane successive, è stata resa nota la notizia che il Porto di Trieste avrebbe avuto 388 milioni di finanziamenti per il progetto Adriagateway di potenziamento del sistema logistico e quello di Genova 500 milioni per la realizzazione della diga Foranea.
A differenza dal passato, dunque, il governo anziché immaginare di distribuire fondi a pioggia (ammesso che l’Ue poi avrebbe approvato progetti simili) ha scelto di concentrare i finanziamenti su due porti: Trieste e Genova. Apriti cielo. A Venezia, la città del perenne lamento e delle scelte mai fatte, gli industriali hanno cominciato a strillare che il governo ha abbandonato la città. Nel Friuli, che con la Venezia Giulia ha storicamente il classico rapporto di rivalità che contraddistingue tutte le regioni “composte” (basti pensare alla rivalità tra la Romagna e l’Emilia), sono scattati gli attacchi di routine sulla Trieste privilegiata e sul Friuli abbandonato. Le classiche lamentazioni, insomma, di quei territori incapaci di attrezzarsi con proposte e idee che, non appena si trovano a dover misurarsi con campioni di efficienza, come ormai da anni è la squadra guidata da D’Agostino a Trieste, invece di aumentare la loro competitività in termini di idee e progetti, se la prendono con il presunto nemico. Eh si, perché dietro alla scelta di concentrare i fondi sui due porti di riferimento del nord industriale non ci sarebbe soltanto il peso della politica (che con Patuanelli a Trieste e con Toti in Liguria conta parecchio) ma soprattutto il fatto che, poiché le regole del Next Generation Ue richiedono capacità di progettazione, il Governo abbia preso atto che per quei due porti i requisiti europei erano stati rispettati mentre dagli altri erano arrivate solo chiacchiere.
Al Porto di Ravenna, invece, impegnato a investire più di 200 milioni nelle opere di dragaggio dei fondali (ma non con i fondi legati al recovery), a suscitare scandalo è stata l’improvvisa bocciatura del piano di Eni per realizzare il più grande hub europeo per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (CO2). Un piano da 1,35 miliardi osteggiato dai movimenti ambientalisti che sembra aver trovato negli esponenti cinquestelle al governo voci talmente attente da depennarlo da piano Una decisione che potrebbe essere rimessa in discussione da eventuali nuovi equilibri di governo, ma, che, al momento, è poco più di una speranza.
Mentre sugli altri fronti sembra regnare la massima confusione, per quanto riguarda i porti la situazione della distribuzione dei fondi del Next Generation Ue sembra definita. Il Nord Adriatico ha ormai un suo unico polo di riferimento in Trieste, e li finiranno gran parte dei finanziamenti. Per Venezia e Ravenna, così come per gli altri porti italiani, resteranno solo le briciole. A Venezia qualcosa per l’ultimo miglio ferroviario e stradale, qualcosa per la “resilienza delle infrastrutture ai cambiamenti climatici” e per l’aumento della capacità portuale. A Ravenna, invece, qualcosa arriverà di certo per l’aumento della capacità portuale, mentre si continua a sperare che torni in gioco la partita dell’idrogeno. Un dato però sembra certo. Né l’uno né l’altro di questi due porti, per quanto ci risulta, sembra aver nemmeno messo sul piatto un progetto che sia uno degno di essere accolto in sede Ue non da un piano di “Recovery” ma da un qualcosa proiettato al futuro. E una cosa che in Italia si dovrà imparare presto a fare è che, non solo a livello europeo ma ormai perfino a livello nazionale, per ricevere fondi sostanziosi sarà sempre più richiesto a tutti di costruire piani credibili e finalizzati a precisi obiettivi. Per l’intero Paese, insomma, da Sud a Nord, una vera e propria rivoluzione al quale, ancora, in molti non sono preparati.