L’ultima frontiera oltrepassata in ordine di tempo è stata la Corea del Sud, dove presto Fgf Industry sarà presente con il marchio Blauer. Ma per il presidente Enzo Fusco il nuovo presidio non è certo un punto d’arrivo, perché l’obiettivo è “coprire tutti i mercati” e l’attuale rete retail “non rappresenta nemmeno il 50%” del mondo. C’è ancora tanta voglia di crescere per Fgf Industry, società tessile di Montegalda (Vicenza) che oltre a Blauer gestisce altri tre brand (Ten C, Blauer Ht e Bpd) e che sarà presente al Forum Top Italian Companies di Parma dopo aver chiuso il 2023 con un fatturato intorno ai 90 milioni di euro (+23% sull’anno precedente). Fusco, che a settembre ha inaugurato il primo store Blauer di Verona e il prossimo ottobre farà il bis a Torino, prevede di chiudere il ’24 con un fatturato in linea con l’anno precedente, se non addirittura leggermente migliore. Un risultato in forte controtendenza, rispetto alla crisi attraversata dal sistema moda.
Recentemente Fgf Industry ha annunciato l’intenzione di aumentare la sua presenza nei mercati extra-Ue. Per quale motivo? E che obiettivi vi siete posti?
“Attualmente il 60% del nostro fatturato è realizzato in Italia, che quindi per noi rappresenta un mercato quasi saturo. All’estero siamo forti in molti Paesi europei tra cui Germania, Spagna e Repubblica Ceca ma ci manca ancora mezzo mondo, un po’ perché non abbiamo trovato le persone giuste e un po’ perché anche noi avevamo altre priorità. Io penso che se un marchio vuole diventare internazionale deve coprire tutti i mercati, e che quindi da questo punto di vista non abbiamo raggiunto nemmeno il 50% dei nostri obiettivi”.
In quest’ottica di crescita globale, quali sono i vostri progetti?
“Ora ci vogliamo concentrare sul mercato coreano, poi vorremmo raggiungere altri Paesi fino agli Stati Uniti ma gradualmente, anche perché siamo un’azienda di famiglia e non abbiamo fondi che ci sostengono. Il modo di vendere è cambiato e ci obbliga a fare investimenti diversi: in passato, a meno di trovare un partner locale e aprire una società sul posto, bisognava passare per forza attraverso agenti e importatori, che ora però sono sempre meno e non hanno più la stessa forza perché i grossi gruppi preferiscono aprire i loro showroom e fare vendita diretta per offrire più servizi. I clienti preferiscono lo showroom perché sanno che vanno a comprare il marchio specifico, senza doversi rivolgere a un agente plurimandatario che magari propone anche le soluzioni di altre aziende”.
Oltre al modo di vendere, è cambiato anche quello di produrre?
“Sì, anche per effetto dei cambiamenti climatici che hanno fatto ridurre il peso degli indumenti e ci hanno portati a produrre anche due capi in uno, separabili in base alla temperatura. Il nostro impegno green consiste nella progettazione di materiali riciclati che riscuotono molto successo come poliestere e microfibre, che pur essendo sintetici somigliano a lana e cotone, o anche tessuti stretch per quanto riguarda pantaloni e giubbotti. Oltre a contenere i costi, questi materiali sono pratici da lavare e da portare, ma dietro c’è sempre un lavoro di ricerca che li rende sempre più performanti, traspiranti e imbottiti con piuma di qualità”.
Attualmente i marchi gestiti da Fgf Industry sono quattro. È possibile che in futuro aumentino?
“Premesso che il marchio trainante è sempre Blauer, Ten C ci può dare grosse soddisfazioni e potremmo potenziarlo, ma per ora ci siamo limitati a un certo tipo di prodotto e di distribuzione. In generale bisogna fare bene quello che hai e non puoi dedicarti ad altro, anche perché il tempo non c’è, quindi penso che Blauer e Ten C resteranno il nostro focus almeno per tre anni. In passato avevo anche il marchio C.P. Company, ma dopo averlo rilanciato l’ho ceduto a un acquirente cinese che mi ha fatto un’offerta irrinunciabile e che ora sta realizzando fatturati più importanti dei nostri: da un lato fa piacere perché vuol dire che avevamo lavorato bene, dall’altro può essere un rimpianto, ma c’è anche da dire che il nuovo proprietario del marchio ha investito molto e che noi vogliamo continuare a essere un’azienda sana, senza debiti”.
Il settore della moda attraversa una fase molto difficile. Quali sono le cause più rilevanti? E quali le contromisure per restare competitivi?
“Vedo tre concause: la prima sono le guerre, che non fanno bene anche dal punto di vista psicologico, la seconda sono le vendite online che hanno portato via il lavoro ai rivenditori, la terza sono le nuove generazioni che spendono in maniera diversa e magari preferiscono comprare un giubbotto in meno ma fare un viaggio in più. La crisi ha toccato soprattutto i marchi del lusso, perché la gente si è stancata di spendere cifre esorbitanti per le griffe. Oltre alla crisi poi c’è la concorrenza sempre più forte di colossi come Uniqlo, Zara e Zalando, che aumentano le loro quote di mercato tutti gli anni. Pensare di contrastarli è come andare in guerra con la fionda: se vuoi competere devi specializzarti nel tuo prodotto e migliorare il servizio che offri, altrimenti sei tagliato fuori”.
Pensa che il taglio dei tassi d’interessi annunciato da Fed e Bce potrà favorire una ripresa?
“Il taglio dei tassi è una buona notizia per le famiglie che hanno un mutuo a tasso variabile, ma spero anche che invogli chi può a investire. Io ad esempio sto realizzando un nuovo stabilimento su tre piani da 4.500 mq che fra un anno affiancherà l’attuale perché credo nel lavoro che faccio e cerco di investire senza indebitarmi, mentre altri purtroppo preferiscono aprire società all’estero per non pagare le tasse. La sede storica conserverà una parte della modelleria e della prototipia, il resto verrà spostato nella nuova sede, che avrà sia uffici che showroom”.