Professoressa Carrozza, la pandemia ha messo in luce l’importanza della comunicazione e divulgazione in campo principalmente sanitario, e scientifico in senso lato: che valore assume quest’anno il premio Galileo in questa prospettiva?
Il Premio Galileo ha un valore che, naturalmente, esiste a prescindere dalla pandemia: la divulgazione scientifica ha sempre rivestito un ruolo importante, e di questo rimango fermamente convinta al di là del momento attuale. Certo questa situazione ci obbliga a porre l’attenzione sulla qualità della divulgazione scientifica e sul suo valore sociale: tanto più tutti i cittadini sono consapevoli di quelli che sono i progressi della conoscenza in tutte le sue articolazioni, tanto più adotteranno comportamenti responsabili. E tra questi c’è anche quello di pretendere delle politiche basate sull’evidenza scientifica, non sulla convenienza del momento: se dovessi scegliere un messaggio in particolare da lanciare come presidente della Giuria, è appunto quello che abbiamo bisogno di una politica basata sull’evidenza scientifica, non solo in ambito sanitario ma anche educativo.
Allo stesso tempo, tuttavia, abbiamo assistito non solo ad una sorta di deriva antiscientifica, ma anche ad una perdita di fiducia da parte dell’opinione pubblica nei confronti degli uomini di scienza a fronte di (almeno apparenti) contraddizioni e diatribe: esiste oggi una necessità di “recupero della fiducia” in questo senso?
Sì, c’è questa necessità quantomeno sul fronte della comunicazione; che spesso è stata utilizzata come una sorta di competizione per esaltare una fazione contrapponendola ad un’altra. In questo senso il Premio Galileo ha il compito anche di far vedere che cosa c’è dietro all’evoluzione scientifica: abbiamo visto diverse opere che raccontano come dietro a questi progressi ci siano delle persone e delle storie; e come queste conquiste non diano mai certezze assolute, ma evidenze all’interno di un certo contesto, con un certo margine di errore. E questa è un’altra cosa che va sempre tenuta presente.
Lei è stata ministro dell’istruzione, università e ricerca: qual è il valore del coinvolgimento degli studenti nella seconda fase del premio?
Al di là dell’originalità della proposta, ha il valore di riunire una giuria che è “libera”. Gli studenti sono un pubblico molto esigente, più degli adulti; un pubblico complesso da attirare e da motivare, libero da pregiudizi o da altri interessi. Si tratta a tutti gli effetti di un giudizio dei lettori, diverso da quello della critica, che li rende protagonisti. Quest’anno in particolare ho trovato che il Premio abbia portato dei messaggi molto interessanti: non voglio influire nel giudizio specificando quali, ma sono certa che vedremo una bella risposta da parte degli studenti.
Tema di stretta attualità è quello della destinazione dei fondi Next Generation Eu: nelle bozze che stanno al momento circolando, ritiene che gli investimenti per formazione e ricerca siano correttamente impostati? E quali miglioramenti andrebbero eventualmente apportati?
Non voglio esprimermi in maniera precisa su quelle che sono per ora appunto delle bozze, però non posso non far notare che proprio in questi giorni viene presentato il Piano Nazionale per la Ricerca italiano. Quello che più auspico, a fronte delle tante proposte di destinazione dei fondi che si stanno avanzando, è che si trovi una risposta al problema del debito: non solo cioè una semplice distribuzione di denaro a settori in sofferenza, ma investimenti in una nuova generazione di ricercatori, lavoratori e imprese. Il che significa ragionare più sul medio termine che sul breve, curando in particolare la scelta delle aree strategiche per la ricerca e innovazione. E mi sento di raccomandare che questa non venga fatta, come purtroppo è accaduto in passato, dall’alto; ma a fronte di bandi a cui università ed altri enti di ricerca siano chiamati a rispondere, perché nel farlo si cresce anche se non si vince. Sarebbe inaccettabile che venisse deciso a priori, senza un confronto di questo tipo, chi riceverà questi fondi.