È iniziata una nuova corsa all’oro. Si fa per dire, perché in realtà l’oro sta in questo caso per delle nuove materie prime rare destinate a diventare altrettanto preziose: il litio, il cobalto, il rame e il nichel. Ma per capire come si è arrivati fin qui, bisogna fare un passo indietro: lo fa anche il giornalista Henry Sanderson, per sei anni corrispondente del Financial Times sul tema delle materie prime e le catene di approvvigionamento, prima corrispondente dalla Cina per Bloomberg, nel suo libro in uscita in italiano per Post Editori “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica” (si può trovare qui).
Il punto di partenza è un dato di fatto: la transizione ecologica è ormai avviata, e la corsa all’auto elettrica ne è elemento fondamentale e, ormai, apparentemente imprescindibile. Nonostante la ritrosia di alcuni Paesi (Italia in primis), la Commissione europea ha infatti spinto l’acceleratore sul processo di eliminazione del motore endotermico, e indirizzato specificamente il settore verso l’elettrico, trascendendo – è l’opinione di alcuni – il principio di neutralità tecnologica che dovrebbe caratterizzare queste scelte. Ad ogni modo, l’intento è nobile, e nessuno può realmente dichiararsi in disaccordo: decarbonizzare la nostra industria, per proteggere l’ambiente e la società dai danni già consistenti che l’inquinamento ha provocato. È a questo livello che si insinua il ragionamento – c’è la chiamerebbe provocazione – di Sanderson: siamo proprio sicuri che l’auto elettrica costituisca l’alternativa più sostenibile all’auto a benzina?
La risposta non è affatto scontata, e Sanderson cerca di scandagliarla sotto vari aspetti: si parte com’è naturale da quello ambientale, e dunque da quelle materie prime che citavamo all’inizio, fondamentali per costruire le batterie. “L’estrazione e la lavorazione di questi minerali richiedono grandi quantità di energia e inquinano gli ecosistemi locali. Spesso, nel dibattito sulla transizione verso le energie rinnovabili e le auto elettriche, si tace questo fatto. Tutti i prodotti che utilizziamo hanno un impatto a livello di emissioni globali, sia per l’estrazione delle materie prime sia per la loro produzione. Si stima che l’attività estrattiva contribuisca per circa il 10% alle emissioni globali. È inevitabile: per produrre acciaio abbiamo bisogno di carbone e per produrre batterie abbiamo bisogno di litio, il metallo più leggero con il più alto potenziale elettrochimico. Quella dei veicoli elettrici è una rivoluzione fondamentalmente ecologica, ma impone delle scelte che sono destinate a influenzare sia l’ambiente sia le dinamiche di potere globale”.
Sì, perché bisogna tenere assieme, oltre a questa dimensione, anche quella geopolitica, appunto, e dunque economica: a saltare all’occhio degli osservatori attenti è il ruolo preponderante della Cina nella partita. Un terzo abbondante delle riserve mondiali di materie prime critiche sono nei giacimenti africani, che al 60/70% appartengono alla Cina, che grazie ad un uso sapiente delle alleanze (Sanderson ne riporta tutti i passaggi temporali) è balzata in testa ai produttori mondiali. Il Paese raffina già il 68% del nichel totale, il 40% del rame, il 59% del litio (minerale principale per la produzione delle batterie elettriche, la cui domanda da cui al 2050 aumenterà del 965% secondo le stime) e il 73% del cobalto, secondo un rapporto di luglio del Brookings Institution, un think tank americano. “Senza la Cina non possiamo muoverci verso un futuro verde in cui le batterie saranno protagoniste – afferma Sanderson –. Ci stiamo dirigendo verso una maggiore indipendenza energetica, ma le catene di approvvigionamento continuano a essere il nostro principale punto debole”.
Di questo bisogna, perlomeno, prendere coscienza: basare la nostra futura economia sulle batterie significherà essere in buona parte dipendenti dalla Cina, e questo subito dopo essersi resi conto di quanto problematico potessere essere dipendere da un Paese come la Russia per il gas. “Più analizzavo la catena di approvvigionamento e scoprivo chi gestiva quei metalli, più mi rendevo conto di come questa transizione avrebbe alterato i poteri economici. L’attenzione mediatica era tutta puntata su Musk e Tesla, ma nell’ombra c’era un mare di miliardari pronti ad arricchirsi”, scrive Sanderson, alludendo alle aziende dai nomi tipicamente cinesi che dominano il settore (“che non sono, come si pensa, statali, ma piuttosto private”).
Per tornare al punto di partenza: sulle materie prime rare si è aperta una vera e propria corsa all’oro, perché tutti cercano di recuperare terreno (e competere così con il paese di Xi Jinping, o perlomeno provare a limitarne l’egemonia). “Per molti versi le nostre società non hanno fatto passi avanti rispetto alle pratiche del passato, quando il bisogno di petrolio spinse gli europei a spartirsi il Medio Oriente”, scrive Sanderson, ma se “l’era del petrolio ha lasciato una traccia indelebile nel XX secolo, dovremmo fare in modo che le industrie del nostro futuro green non ripetano gli stessi errori”. Perché, se la direzione, quella della decarbonizzazione, è senz’altro da perseguire, “i beni di consumo, anche quelli green come le auto elettriche, creano quelle che lo studioso Peter Dauvergne ha definito ombre ecologiche, che si stagliano sui Paesi più poveri e meno in grado di farvi fronte”, spiega Sanderson. Che per concludere il ragionamento utilizza nuovamente le parole di Dauvergne, per lui profetiche: “L’ambientalismo non solo non sta riuscendo a produrre modelli sostenibili di consumo globale, ma gran parte di ciò che i politici delle economie ad alto consumo etichettano come progresso ambientale non è altro che il mondo ricco che sposta le conseguenze e i rischi di questo progresso negli ecosistemi e sulle persone con meno potere – e quindi meno influenza sugli affari globali”. Si potrebbe dire che dietro l’intento del ripulire il Pianeta, stiamo in realtà solo nascondendo la polvere sotto il tappeto.