Più di 9 miliardi di persone entro il 2050. Le stime dell’Onu parlano chiaro, la popolazione mondiale è destinata ad aumentare vertiginosamente nei prossimi trent’anni e così, di conseguenza, anche la domanda alimentare. Ma nello specifico di quanto cibo e risorse idriche avremo bisogno? Le risorse disponibili sono sufficienti a soddisfare le necessità future? “Ci sono molti studi scientifici che quantificano quante risorse serviranno per sostentare questo incremento, si prevede che il consumo di cibo aumenti del 50%, e altrettanto il consumo di energia, servirà il 30% in più di terre coltivate e quindi anche un 20-30% in più di acqua per coltivarle”, spiega Maria Cristina Rulli, docente di Idrologia e Sicurezza idrica e alimentare al Politecnico di Milano nel corso dell’incontro “Alimentazione prossima: acqua, insetti sulla terra e cavoli sulla luna” che si è tenuto ieri, venerdì 19 maggio, nella prima giornata del Galileo Festival.
Insomma quello tracciato è uno scenario che evidenzia l’enorme pressione sulle risorse naturali che dovranno essere utilizzate per rispondere a questa sfida. Che può essere vinta solo elaborando strategie che permettano di conservarle il più a lungo possibile e quindi minimizzando l’impatto ambientale: e la parola è sempre una ed è sostenibilità, attraverso produzioni alimentari e abitudini a tavola più virtuose. A partire dalla gestione dell’acqua, l’oro blu progressivamente diventato un bene sempre più prezioso a causa del prolungarsi dei periodi siccitosi. Per l’85% la risorsa idrica dolce che possiamo utilizzare viene impiegata in agricoltura e “per produrre un chilo di mais occorrono circa 900 litri di acqua”, sottolinea la professoressa Rulli. Chiaro che quindi si debba ripartire proprio da qui, rendendo le pratiche agricole meno impattanti così che l’uso di risorsa idrica per la produzione alimentare avvenga “in ottemperanza al ciclo idrologico, cioè in maniera tale che la quantità di acqua utilizzata possa essere di nuovo disponibile al successivo bisogno di essa. Cosa che in questo momento non sta avvenendo”. Una necessità per cui occorre sensibilizzare tutti “sia coloro che possono materialmente agire verso tale salvaguardia tramite apposite politiche, sia tutti i cittadini che possono agire con il proprio comportamento”, conclude Rulli.
“Consideriamo inoltre che per un chilo di carne servono 15mila litri di acqua, mentre per un chilo di farina di grillo solo 5 litri”, aggiunge José Francesco Cianni, amministratore delegato di Nutrinsect, azienda nata a Montecassiano, a 11 chilometri da Macerata, con lo scopo di “nutrire il mondo con proteine alternative”, nella fattispecie proprio quelle apportate dai grilli del tipo Acheta domesticus allevati nei mille metri quadrati dello stabilimento aziendale. E oltre ai vantaggi ambientali, anche dal punto di vista nutrizionale gli insetti sembrano una delle strategie imprescindibili per riuscire a sfamare la popolazione mondiale nel modo adeguato: “A parità di peso, la carne di manzo infatti possiede circa il 23% di proteine, quella di grillo arriva addirittura al 70% di contenuto proteico”. Caratteristiche che, insieme al gusto, li rendono del resto molto apprezzati in tantissime culture, meno qui in Italia dove la nostra talvolta “ingombrante” tradizione culinaria sembra ancora restia ad aprirsi alle possibilità offerte da questo “superfood”: “In questi mesi c’è tanto clamore al riguardo ma il problema è il modo in cui si fanno passare queste cose, come se si trattasse di qualcosa di pericoloso o di nocivo e questa è una presa di posizione ideologica. Sono però fiducioso perché le nuove generazioni sono molto più sensibili al tema e li provano con grande apertura mentale. Sicuramente tra dieci anni mangeremo tutti insetti a tavola”.
Poi certo in futuro si potrebbe guardare anche al di là degli orizzonti terrestri, puntando allo spazio e immaginando di colonizzare altri pianeti, come Luna o Marte, uno scenario che in realtà che non sembra poi essere troppo lontano. Ecco che la permanenza dell’uomo non potrà dipendere qui dalla possibilità di contattare, ogni volta che serve, il pianeta Terra per richiedere un servizio di delivery con quello che manca. La soluzione sarà la realizzazione di ecosistemi artificiali in grado di creare le condizioni necessarie alla sopravvivenza. “In questi sistemi, detti biorigenerativi, le piante assumeranno un ruolo centrale, svolgendo le funzioni di rigenerare l’aria grazie alla fotosintesi, purificare l’acqua attraverso la traspirazione e produrre cibo fresco, anche riutilizzando scarti organici dell’equipaggio”, spiega Stefania De Pascale, docente di Orticoltura e floricoltura all’Università di Napoli, dove da oltre 20 anni, un gruppo di ricerca del Dipartimento di agraria è impegnato in progetti dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) e dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Insomma sistemi virtuosi che per definizione sono sostenibili e che quindi apportano enormi contributi anche calati rispetto alle esigenze terrestri: “La ricerca nello spazio”, conclude De Pascale, “ci consentirà di coltivare di più e meglio sulla Terra, in sistemi chiusi, con elevata efficienza d’uso su substrati poverissimi, e questo ci permetterà di coltivare nei deserti, sui poli, nel Vertical farming nelle città”.