Il dibattito di queste settimane sulla possibile istituzione di un liceo del Made in Italy ha avuto un merito importante. Ha riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sul futuro delle competenze che contribuiranno a tutelare la competitività di tante imprese in settori chiave dell’economia italiana. Le proposte formulate in questi giorni arricchiscono e completano un ragionamento avviato su più fronti, dal tema della crescita degli ITS fino alla promozione di Academy aziendali per la formazione di profili specializzati. Abbiamo iniziato a interrogarci, per fortuna, su come investire in valori e competenze che siano in grado di rilanciare il prodotto italiano nel mondo offrendo ai nostri giovani percorsi di crescita al passo coi tempi.
Proporre un’offerta formativa coerente con le necessità di settori diversi, spesso caratterizzati da imprese di piccola dimensione, non è cosa facile. Se guardiamo ai percorsi di innovazione e di crescita tipici del modello produttivo italiano ci troviamo di fronte a una combinazione di saperi che, mescolati fra loro, generano risultati sorprendenti. Le imprese italiane, con poche eccezioni, non hanno fatto investimenti importanti in ricerca e sviluppo. Hanno dimostrato, tuttavia, di saper combinare design, tecnologia e saperi di matrice artigianale nell’ambito di una cultura di impresa profondamente segnata da valori chiave come l’attenzione all’estetica e al rispetto della persona.
In questa prospettiva, il Made in Italy non è tanto una o più materie di studio, quanto piuttosto un modo con cui affrontare i problemi. È un insieme di regole, spesso non codificate, per leggere il mercato e mettere a punto soluzioni originali. Riproporre queste dinamiche nella scuola italiana non significa semplicemente aggiungere nuove materie alla lunga lista di quelle già esistenti. Significa piuttosto organizzare i percorsi formativi attorno alla risoluzione di problemi reali.
Grazie alla particolare flessibilità sul fronte della didattica, il mondo degli ITS ha intrapreso da tempo una sperimentazione su questi temi. Dal 2017 il Ministero dell’Istruzione ha promosso metodologie come il design thinking che hanno avuto il merito di focalizzare l’attenzione degli studenti su problemi reali da risolvere attraverso metodologie che valorizzano l’empatia (come riconoscere davvero i bisogni della domanda?), che promuovono il pensiero critico (si sta lavorando a un problema davvero rilevante?) e la capacità di prototipare soluzioni plausibili a basso costo. Il metodo, centrato sull’ascolto delle persone, riflette un approccio umanistico tipico di tanta cultura di impresa del Made in Italy.
Il merito principale di strumenti di innovazione e di apprendimento come il design thinking centrati su sfide (challenge based learning) è quello di attivare l’attenzione e l’impegno di giovani che non necessariamente si appassionano allo studio di discipline verticali. Non che queste non siano utili. Al contrario. Cambia l’innesco. Lo studio delle singole materie si attiva di fronte alla necessità di “incontrare il mondo”, per usare le parole di Alessandro Mele a capo del progetto Cometa che ha avviato a Como un liceo artistico-artigianale sulle medesime premesse.
È auspicabile che le sperimentazioni avviate in questi anni diventino la cifra di tutte quelle attività formative che puntano a promuovere la competitività del Made in Italy. Proporre una didattica attiva, centrata su problemi reali, capace di organizzare l’innovazione in una logica collaborativa è la via per riqualificare in modo trasversale i percorsi formativi a livelli diversi, dai cicli secondari alla formazione continua promossa dalle imprese. È grazie a queste metodologie che una nuova leva di giovani (e non) potrà contribuire a rilanciare un modo di fare impresa che è parte costitutiva del valore del prodotto italiano nel mondo.
*Stefano Micelli è docente Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari Venezia e presidente Progetto Manifattura Milano.