Che fosse giusto o sbagliato, idea geniale o follia, il progetto della piattaforma off – shore immaginata da Paolo Costa all’epoca della sua presidenza del Porto di Venezia, aveva almeno il merito di essere un progetto. Rimosso dalla plancia di comando l’ex ministro è già sindaco della città lagunare, il Porto di Venezia è finito vittima di tre fattori: un presidente dell’autorità portuale incapace di relazionarsi con chiunque, un presidente di regione per il quale non solo non esiste il porto ma – nel suo immaginario – non esiste nemmeno Venezia, è un sindaco capace soltanto di fare sceneggiate e di curare solo alcuni specifici interessi raramente coincidenti con quelli generali.
Il mix di questi tre fattori ha portato ad elevare l’indecisionismo quale strumento per eccellenza di governo della città. Insomma, si sbraita tanto e non si decide nulla. E anche quando un risultato storico lo si raggiunge, come nel caso del Mose, si moltiplicano le lamentele e i distinguo quasi che la città fosse capace di gioire assieme, anche per una sola volta, per una vittoria.
Gli ultimi anni, per il Porto, sono stati durissimi, segnati da scontri pesantissimi tra il sindaco Brugnaro, spalleggiato per ragioni di opportunità politica da Zaia, e l’appena trasferito a Civitavecchia presidente dell’autorità portuale Pino Musolino. Scontri continui, peraltro difficilmente decifrabili, con progetti alternativi sui quali mai si riesce a creare quella condivisione all’interno di una classe dirigente di una città e una regione, premessa indispensabile affinché dei manager possano operare. E così ci si scontra su tutto. Sul bilancio del Porto, usato secondo le opposizioni in Comune come strumento di ricatto nei confronti dell’Autorità portuale per la mancata approvazione di progetti come quello di un hotel alla Marittima che stava molto a cuore al sindaco Brugnaro; sulle grandi navi, con Zaia e Brugnaro schierati per portarle a Marghera mentre l’esponente locale del Pd, il sottosegretario PierPaolo Baretta, punta su un off – shore forse davanti al Cavallino. Perfino sul Mose, appunto, con il Porto che lamenta che quando si alzano le dighe mobili le navi sono costrette a restare ferme fuori, lasciando un qualsiasi osservatore esterno stupito del fatto che il problema venga denunciato ora quando questa grande opera è stata progettata più di trent’anni fa.
In tutto questo bailamme, dopo che la città ha deciso di non voler essere più industriale e dopo che il destino ha deciso che non sarà più meta di turismo di massa, Venezia ha smesso ormai da tempo di essere una città portuale. Le grandi navi, ormai è evidente, attraccheranno o a Ravenna o a Trieste, mentre il retroporto, che dovrebbe essere il motore per movimentare le merci, non vede quella organizzazione efficiente di mezzi e uomini che sarebbe necessaria per movimentare velocemente le merci dirette ai distretti industriali del Nord.
Con queste premesse, e con una classe dirigente locale di questo livello, Venezia rischia di perdere anche la sfida che recentemente gli industriali hanno lanciato sull’idrogeno. Una sfida che dovrebbe portare alla rinascita di Porto Marghera e che rischia però di fare la fine di tutti i progetti veneziani. Basti pensare che Gianni De Michelis, all’epoca, perse la sfida di portare l’Expo a Venezia, vera occasione di riprogettare il futuro di quella città. Alcuni anni dopo l’Expo lo volle vincere invece Milano, operando così un rilancio della città che solo il Covid ha saputo fermare. Venezia a quel punto, cercò di entrare nell’Expo milanese con un proprio padiglione in laguna. Peccato che quella iniziativa non riuscì mai a decollare e quel padiglione rimase abbandonato già nel corso della manifestazione. Oggi campeggia desolatamente vuoto a fianco di quell’altro buco nero della città che va sotto il nome di Vega. E la Venezia abbandonata ormai da tutti, abitanti e turisti, è ormai ridotta solo a set cinematografico, una sorta di Cinecittà deserta. Di persone e di idee