Che le nuove geografie del Pil combacino con i trend di popolazione non è mai stato un mistero. La popolazione fugge dalle aree che si impoveriscono e viene attratta da quelle dove si concentra, e si produce, la ricchezza. Un recente studio, pubblicato dalla Rivista The Lancet, una sorta di bibbia per chi si occupa di demografia, viene dipinto uno scenario che prevede un crollo demografico di proporzioni apocalittiche per i paesi dell’Europa centro orientale. Da qui al 2.100, secondo questo studio, l’Ucraina passerebbe da 44,6 milioni attuali, a 17,5 milioni; la Polonia da 38,3 milioni attuali a 15,4 milioni. Peggio ancora la Romania, paese colpito da potenti ondate migratorie, che scenderebbe dai 19,4 milioni attuali ai 7,7 milioni. Campagne abbandonate e villaggi vuoti, secondo questo studio, anche in Serbia, in Ungheria e negli altri Paesi dell’area.
Ma, secondo lo studio, un destino simile toccherebbe anche all’Italia. Nello specifico la popolazione del nostro Paese crollerà a circa 30,5 milioni nel 2100, più che dimezzata nel corso del secolo. Destino condiviso con la Spagna (da 46 milioni nel 2017 a circa 23 milioni di persone nel 2100). Che qualcosa di rilevante stia accadendo lo si intuisce da alcuni dati. In soli cinque anni, certifica l’Istat abbiamo perso più di un milione di abitanti passando dai 60.795.612 del 2015 ai 59.641.488 del 2020. Un trend noto da tempo, frutto di quattro fattori principali: basso tasso di natalità, invecchiamento della popolazione, rallentamento dei flussi migratori in entrata e aumento esponenziale del numero dei giovani che emigrano all’estero.
Se questo è il quadro nazionale, diventa interessante analizzare anche il quadro locale delle regioni che compongono il nuovo triangolo industriale, perché, entrando nel dettaglio, anche qui non mancano le sorprese. A dispetto infatti di una narrativa che racconta di un Veneto, Emilia Romagna e Lombardia come motori trainanti dell’economia, il quadro demografico fornito dall’Istat rivela una realtà assai più articolata, con una Lombardia che passando da 10.002.615 a 10.027.602 cresce di circa 25.000 abitanti ma solo grazie all’incremento di 68.502 abitanti da parte di Milano, un Veneto e un Friuli Venezia Giulia che continuano a perdere popolazione (rispettivamente 48.463 e 20.906), ed una Emilia Romagna che invece cresce di 13.611 abitanti, numero frutto di un saldo tra la crescita di popolazione delle provincie più ricche e attrattive (Bologna, Parma, Modena, Rimini) e le perdite registrate dalle provincie più periferiche e di minore appeal (Piacenza, Reggio, Ferrara, Forlì-Cesena).
L’istantanea scattata dall’Istat fotografa dunque una situazione quasi sovrapponibile a quella delle classifiche relative all’export delle stesse aree, con una Emilia Romagna che, fino al 2019 cresce di più e nel 2020 cala di meno rispetto a Veneto e Lombardia. Una conferma che le corrispondenze non siano puramente casuali deriva dai dati del Piemonte che tra il 2015 e il 2020 perde ben 113.250 abitanti, passando da 4.424.467 a 4.311.217, una perdita percentuale simile a quella della regione più in crisi dell’intero Nordest, ovvero il Friuli Venezia Giulia.
Si tratta di numeri noti da tempo e per i quali sono suonati molti campanelli di allarme rimasti inascoltati. Alcuni anni fa, questo tema, relativamente al veneto e al Friuli Venezia Giulia, emerse con forza nel Rapporto della Fondazione Nordest, cioè della Fondazione che fa capo alle Confindustrie dei quel territorio, diretta allora da Stefano Micelli. Ma della politica veneta e friulgiuliana non c’era nessuno ad ascoltare e nessuno ricorda che di fronte a quei dati, esattamente come accade ogni anno che l’istat presenta i numeri di questa deriva, qualcuno abbia deciso di adottare politiche capaci di invertire il trend. E che l’Emilia possa invertire da sola un trend di questo genere è difficilmente ipotizzabile.